CHIEDETEMELO PURE …

A chi me lo chiede rispondo che sono ancora di sinistra. Ma di una sinistra più compagna delle persone che non di se stessa.
Negli anni giovanili quando tutto era la sintesi di un sussulto interiore, disordinato ma tenuto insieme dal facile entusiasmo generazionale, essere di sinistra era anzitutto un modo per distinguersi dal proprio opposto. A guardar bene, anche allora, la classicità di un atteggiamento contro mai sopito nell’accezione tradizionale dell’appartenenza. Quasi a dire che da soli, pensando in proprio, era difficile farcela o, addirittura, starci assieme.
Con gli anni che passano per chiunque anche nella capacità di leggere diversamente un mondo che cambia, finisci col capire che non si può vivere nel bluff perenne. Vagheggiando un mondo migliore senza fornirne gli strumenti per realizzarlo, ma proseguendo con lo stesso, stanco ritornello che ti induce a credere che siano tutti gli altri a sbagliare. Anche quando rappresenti poco più che te stesso.
Ecco, questa sinistra non mi piace più.
Così come non mi piace la disinvoltura con cui si spaccia per tesi socialmente utile quella che a volte è una pura e semplice ipocrisia. Dietro alla quale si nascondono retoriche abili a mistificare l’altro, proprio colui che dovrebbe rappresentare – per vocazione e visioni storiche – il principale degli interlocutori.
Ma questo non vuol dire non possedere quei valori solidali che dovrebbero caratterizzare, prima che la cosiddetta sinistra, ciascuno di noi. Perchè ci sono sentimenti inderogabili che vanno oltre un recinto ideologico, utile ad aggregare tanti uguali anche nel loro modo di sentirsi differenti. Verrebbe da chiedere rispetto a chi e a cosa, sempre in attesa di un messaggio che sappia leggere con chiarezza le necessità che mutano e noi con lui.
Se per qualcuno essere “renziano” vuol dire essere antitetici al concetto di sinistra che conosciamo, beh, in tutta franchezza, dico si esserne contento. Senza rinnegare le esperienze vissute con convinzione e che rivendico con l’orgoglio di un tempo, però, che era altro, pensando che la vera sinistra sia quella che i problemi non si limita a raccontarli ma che li risolve. Tutto il resto è solo un assunto da meri imbonitori, convinti che il “popolo che doveva andare avanti” sia solo lo strumento per esaltare l’interesse di pochi. Dopo decenni trascorsi ad interrogarsi sul sesso degli angeli senza concludere, ma rilanciando ogni volta un identico messaggio contro il nemico del momento. Quello che accomuna e che dà un senso al proprio, sterile ruolo.
E non essere di sinistra a questo modo non significa essere di destra. Magari solo aver aperto gli occhi e sentirsi compagni per davvero. In maniera, finalmente, un po’ più utile a chi chiede delle risposte.

DOMANI

E’ persino divertente ascoltare quelli che da sempre sono bravi. Abili narratori di un mondo triste da guardare con l’occhio torvo di chi sa, comunque dovesse finire, che alla fine andrà male. Una mentalità tipicamente perdente senza smarrire — sia chiaro — il polso della situazione reale, tuttavia da leggere con il distacco di chi non intende piegarla alle sue ragioni politiche e personali.

Sin da bambino ho ascoltato di un paese che non ce la poteva fare. Perennemente immerso in una transizione critica, alla ricerca di un modo per sfuggire ad un baratro sempre alle porte ed incapace di risollevarsi.

Per abitudine verrebbe voglia pure di crederci. Se non altro perchè è più facile rassegnarsi che non provarci, perchè è assai più semplice addossare ad altri colpe che sono anche proprie nell’eterno conflitto tra cambiamento e conservazione anzitutto culturali.

Tornati come siamo nella prima repubblica del partitismo consociativo e proporzionale, riappare il velo che offusca il tema del da farsi e della speranza. Un qualcosa che vive di un dinamismo da procurare, impegnandoci a leggere i fatti con l’occhio del giorno dopo. Una lungimiranza non sempre facile, ma necessaria a cogliere il vero punto di ricaduta di ogni scelta.

L’”immediatismo” che condisce ogni giudizio, che chiude ogni valutazione nel perimetro asfittico di una convenienza di parte da effetto immediato, è esso stesso un limite invalicabile. Quello che rappresenta la differenza tra statismo e politica da cortile, una differenza che per natura, vocazione ed origini proprio il PD avrebbe dovuto superare.

Dieci anni dopo gli entusiasmi variamente spontanei e convinti di chi fondò il “partito nuovo”, ci ritroviamo all’indomani di un percorso improvvisamente a ritroso. Con scissioni più o meno parziali che intendono azzerare ogni tentativo di sfuggire alle vecchie partitocrazie. In un gioco di sponda tra diversi accomunati dal nemico che unisce, secondo il costume che per anni ha tenuto in vita tanti opposti conflittuali solo per forma ma non per sostanza.

Il 10 marzo vivremo l’avvio di una nuova occasione che intendiamo darci. Da simpatizzante, appassionato e militante dico a tutti e a me stesso: cerchiamo di non sciuparla con ciò che in poche settimane forse sta cambiando anche noi.

E SI’, AVEVA RAGIONE GIACHETT’I

Io non ci sto più.

Da iscritto e militante storico di una “sinistra” divenuta più sedicente che reale almeno negli intendimenti di chi se ne fa promotore, è inaccettabile l’atteggiamento assunto dalla minoranza Dem. Indegna rappresentanza di un paese visto solo come contenitore di consensi e non come il riferimento di una politica che da fine sappia farsi mezzo.

Il gioco venuto allo scoperto ormai è chiaro: ciascuna azione della minoranza è finalizzata ad eliminare politicamente Renzi, come fu per Veltroni. Usando il mezzo della scissione e del NO ad oltranza ad ogni proposta, anche quando sono accolte le istanze della minoranza. Un NO alla fine fatto pesare proprio al leader Dem, in un gioco al massacro già in atto con il referendum del 4 dicembre e da ripetersi con le prossime amministrative. Passaggio essenziale intorno a cui fissare le date congressuali (possibilmente dopo il voto) verso una sconfitta elettorale da costruire a tavolino, prendendo tempo e logorando una leadership sconfessata dalle urne senza passare, magari, per primarie e congresso.

Dunque un comportamento vergognoso che non scopriamo oggi. Nel segno di un’ unità e di un buon senso tuttavia pronunciati a gran voce, quasi a dire che chi vuol scindersi è la maggioranza e non, come sarebbe normale che fosse e come appare, la vecchia ditta dalla scarna rappresentanza.

I territori, del resto, ci raccontano da tempo l’infausta deriva a cui siamo avviati. Una riedizione stanca di un “diessismo” di strateghi, tattici e imitatori di un verbo che mira alla sopravvivenza di una classe dirigente dal perimetro sempre più circoscritto. Abili narratori di una storia già giudicata (febbraio 2013) e rigettata da una nazione che vorrebbe guardare altrove nonostante tutto.

Nel mezzo un referendum che ha certificato l’ostilità di una periferia politica che ha finto il SI’ per sostenere il NO. Pur reclamando ruoli e visibilità che presupporrebbero una qualche capacità di intercettare i bisogni della gente. La stessa persuasa dal populismo crescente, che ha come padre la filosofia di una ditta che prima di Grillo è la prima ad aver imbonito la creduloneria popolare. E su questo, piaccia o no, ringrazio il Cielo di non aver vissuto il PCI. Per me sarebbe stata una colpa …

MATTEO, MATTEO E POI MATTEO.

Fioccano i malumori amici nei confronti di Matteo Renzi. Ma non sarà che ancora una volta avrà ragione ?

Le aperture “proporzionali” sulla legge elettorale e alle sofferte vicende interne, alla fine potrebbero favorire uno scontro tra minoranze. In una sorta di redde rationem privo di scissioni che porterebbe definitivamente allo scoperto le innegabili ambiguità di alcune anime, con la tendenza ad annullarsi a vicenda. A partire dal gruppone franceschiniano (della “ditta” tutto è noto anche nella sua funzione di paravento quelli che stanno nel mezzo) che da anni si pone come ago della bilancia decisivo nei territori, parte integrante di un governo propaggine del precedente. Nella necessità – diciamocelo – di trovare un modo digeribile e Gentiloni permettendo per finirne prematuramente il mandato verso le elezioni anticipate. Essenziali per riprendere il filo del riformismo (e di un’Europa decente anche alla luce dei nuovi USA targati Putin) pesantemente frenato dal referendum del 4 dicembre.

Nel frattempo “Orfini” ricorda alla fu AreaDem che con il premio alla coalizione finirebbe il senso del Partito Democratico. Verità lampante se la cosiddetta “vocazione maggioritaria” è ancora un valore e Giovani Turchi che tentano di smarcarsi dal ruolo abbastanza stretto che li caratterizza. Intestandosi la parte di interlocutore di peso nelle dinamiche Dem e soppiantando, con toni e contenuti differenti anche per la lealtà fin qui dimostrata, le derive diessine e gli equilibrismi cari al ministro della cultura. In un sostanziale gioco di sponda con lo stesso segretario per isolare le dissidenze più o meno marcate.

Il rischio più grande, del resto, è quello di smarrire quanti, attraverso il SI’ referendario, hanno manifestato un chiaro gradimento alle riforme “renziane”. Un elettorato persino nuovo e più maturo (meritevole di un soggetto politico aperto e meno costretto alle rigidità tradizionali) che si fonda sulla chiarezza dei contenuti e degli obiettivi. Ma anche mobile in caso di proposte che restino tali e di accordismi da caminetto.

Ora, a fronte di quelle che sono solo considerazioni personali magari molto lontane dal vero, evidentemente non sappiamo come andrà a finire. Pensando ai quasi tre anni che sono stati e a quelli, ben più lunghi, che potrebbero essere se davvero dovesse stabilizzarsi il clima da restaurazione in atto. Condannando l’Italia alla sua irriformabilità e a un declino definitivo per la fuga di chi ricominciò a credere nel nostro paese, con un’ autostrada aperta ed irreversibile ai populismi organizzati. Riferimento per chi, a livelli più alti e più ampi, tenta di avviare un nuovo ordine, con le conseguenze che già si intravedono e che inevitabilmente riguarderanno anche il nostro paese.

CINGOLI: SONO SOLO RIFLESSIONI PERSONALI … FORSE

Qualcuno penserà ad uno spirito critico innato. Altri, magari, a semplici buon senso e lungimiranza, conoscendo l’ambiente ed i suoi attori.
Nel 2019 anche a Cingoli rinnoveremo Sindaco e Consiglio Comunale. Un appuntamento a cui non arrivare impreparati, considerato che il Primo Cittadino è al suo secondo mandato e che avremo una situazione tendenzialmente azzerata anche tra i suoi sostenitori.
Ma guardando alla situazione data, si coglie un sostanziale torpore delle forze politiche (ma non solo) locali. A partire da un PD (in cui milito assumendomi la mia parte di responsabilità) in piena crisi di identità e che non può limitarsi a recepire solo le proposte altrui. Ben sapendo che per dirsi appetibili occorre tornare a recitare un ruolo quantomeno di presenza nel dibattito locale, un qualcosa che manca da qualche anno e che non si risolve improvvisando e lontani dalla comunità.
Svegliarsi a due mesi dalle elezioni è quanto di peggio potrebbe accadere. Con scelte dettate più da una frettolosa necessità di testimonianza che non dall’esigenza di dare un contributo ad una cittadina sbiadita negli anni. Conseguenza di storiche contese familistico – cavatorie e di uno stile approssimativo ma apparentemente “forte” dell’attuale Primo Cittadino.
Quindi: la discussione verso il 2019 inizia oppure assisteremo ancora una volta alle peripezie di qualche personaggio con la fregola della politica, che in un sol colpo – forse per notorietà e professione dalla facile presa popolare – farà man bassa di un consenso anche in assenza di contenuti apprezzabili. Portandoci all’ennesimo bluff.
Tenuto conto della realtà in corso, è bene che le forze più responsabili si confrontino per tracciare le priorità del nostro centro. In un patto di “rinascita locale” in cui ciascuno compia un passo indietro (anche negli uomini) guardando ad una maggiore apertura all’esterno, per “costruire” una figura altra rispetto all’offerta attuale. Perchè servono alternative, a partire da un PD che può porsi al centro della riflessione. Un’occasione per ricordarsi di esistere ed un modo per dare un taglio diverso ad una proposta che superi qualche referente provinciale e regionale da soddisfare ed eventualmente da tenere fuori. Uno spartiacque tra vecchio e nuovo pensando che pure a Cingoli siamo nel 2017 e non fermi al 1960 o giù di lì.