L’EFFETTO MOLTIPLICATORE RENZI (“Cartoline Democratiche”, 16 settembre 2018)

Matteo Renzi c’è, provoca e scuote il sistema dalle fondamenta. Oscurando in un sol colpo la vocazione nazarena alle ortodossie filo – stellate che si oppongono come chi picchia il gigante con un kleenex. Magari da sventolare nelle piazze del come eravamo proverbialmente generiche nella loro rivendicazione.
Nel frattempo i deputati Dem resistono strenuamente al decreto “milleproroghe”, forti di una vitalità da visione ritrovata che ha ripreso a correre allargando, forse, il suo perimetro. Con il profilo di una rappresentanza diversa dal “riunionismo” tra simili, perché quando si riscopre l’anima di una guida culturale netta, si ricompone la dignità di un pezzo decisivo della nazione. Quello che non cede alla chine evocative preferendo la chiarezza alle comode suggestioni.
E’ evidente, di conseguenza, lo smarrimento di quanti volevano che il PD rinculasse nei DS. Con l’appoggio di una parte sociale alla ricerca di un segretario da vecchia cinghia di trasmissione per ricucire la passione consociativa che regala sempre qualcosa a chiunque. Di fronte, tra l’altro, agli operai Fiat che acclamano Renzi e non Landini fu Di Maio anche nelle fughe.
E proprio Renzi scompagina moltiplicando effetti e reazioni alla sua centralità mai sopita. In un percorso rinnovato anche nelle forme della politica da affidare ad un campo più “neutro” (come ricordato da Davide Di Noi e dall’idea dei “comitati civici”), disintermediato e lontano dalle sterili tessiture solo interne. Per avviare una compresenza distinta di rappresentanza politica e di leadership culturale, in cui la seconda prevalga come il cuore di un’ identità ampia ma definita.
Del resto se non hai una proposta complessiva di futuro e di Paese il rischio è quello di sfiorire presto, come vediamo dal 4 marzo nel trionfo del fuoco amico e suicida. Lo stesso che predilige gli animi gentili per non turbare i sonni perbenisti da coscienza minoritaria, uno stile complice che tra parte e controparte non fissa differenze.
A Firenze, probabilmente, il cardine di questa fase e di come proseguirà. Per alzare il livello di un confronto che diventi mentalità e, speriamo, comunità più evoluta anzitutto tra chi ne è già convinto per andare verso gli altri. Perché il vero “partito” è quello culturale di una visione.

Quando abbiamo cambiato pelle (in peggio) (“Democratica”, 31 agosto 2018)

Abbiamo il diritto di guardare avanti, abbiamo necessità di vitalità e speranza

Hai ragione Walter. Ce l’hai quando dici che mancano il sogno, il senso del passato e del futuro declinando tutto al presente. In una percezione che prevale sulla realtà dove la storia, nelle stesse pagine peggiori, ci ha detto qualcosa.
Forse non hai ragione, però, quando fai capire che sono determinati processi di cambiamento ad aver favorito la situazione in essere. Almeno se non si spiegano le ragioni di un ritrovato minoritarismo di visione che, prima ancora che all’Italia e al proprio opposto, ha guardato al suo interno non per leggersi e per capirsi. Ma per sconfiggere chiunque potesse modificare un ordine costituito fatto di spalleggiamenti e di connivenze, raccontati col piglio sapiente degli affabulatori che all’esempio preferiscono la citazione.
Un modo, probabilmente, non tanto per far crescere le umane genti, ma per mantenere quella distanza persino un po’ snob tra chi decide e chi, invece, è chiamato a recepire senza domandare. Il tuo ricordo incessante di quello che fummo nel 2008, dieci anni dopo diventa una retorica che magnifica un dato certamente straordinario vista la situazione data non solo per cause altrui. Ma in cui non c’è stato il coraggio di proseguire sino in fondo, per una politica che, per dirla come te, si è rimirata in un Paese che si preparava progressivamente a mutare pelle. Una di quelle transizioni che possono essere un pericolo o una grande opportunità a seconda di come vengono vissute e fatte vivere. Noto, pertanto, una certa contraddizione rispetto alla sinistra che non deve guardarsi indietro per cogliere, una volta per tutte, le inevitabili trasformazioni.
Perché il tuo costante ricorso a ciò che eravamo in un tempo che era altro, diventa il piedistallo su cui ergersi come se gli altri fossero tutti “compagni che sbagliano”. Un profilo che andrebbe oltrepassato senza dimenticare, privi dell’atteggiamento di chi spunta a moralizzarci ogni volta, come è accaduto negli anni in cui davvero si stava cambiando questo Paese.
Un’occasione unica in cui sarei stato felice – da tuo vecchio estimatore – di ammirare un tuo contributo vero e non la corsa a dimostrare che si stava unicamente sbagliando come gli anziani quando parlano ai ragazzi. Perché qualcuno almeno ci ha provato, nel consueto “fuoco amico” che ben conosci e che è un complice essenziale del momento che stiamo vivendo.
Tuttavia non voglio “strologare” sui motivi del tuo scritto. Ho le mie idee che sono pronto, come sempre, a discutere sperando di essere alla tua altezza. A condizione che davvero ci si impegni per uscire da questa china, caratterizzata da una conservazione che sfocia nel consociativismo. Un qualcosa che consoliderebbe le derive attuali illudendo la sinistra di avere ruoli, rendite e rappresentanza.
L’unità che sostanzialmente auspichi, dovrebbe perciò tradursi in una pluralità ma produttiva, pensando all’orizzontalità che ricordi e che preferisco chiamare “disintermediazione”. Con gli strumenti di questa epoca e non solo a ridosso delle scadenze comandate quasi fossero una festività ineludibile. Ma in un quotidiano fatto di umanità e di individualità, rinunciando al contegno saccente di chi conosce le verità per definizione arroccandosi su un “era meglio quando era peggio” di antica memoria. Un danno inestimabile alle donne ed agli uomini che hanno il diritto di guardare avanti come a Piazza San Babila (una piazza più laica delle apparenze), un momento necessario di
vitalità e di speranza e non, mi auguro, la prova generale per una prossima costruzione politica. Che sciuperebbe e dividerebbe pure questo contributo, a cui dare gambe ogni giorno come passaggio culturale e non elettorale. Un pensiero totalmente diverso e dirompente da contrapporre democraticamente all’oscurantismo generale di questa fase, lontani dai vizi e dagli autolesionismi connaturati.
Del resto e come ci insegnasti, prima viene il Paese, lo stesso che siamo in tanti ad amare. E per me “sinistra” vuol dire questo, come significa non essere parziali, essere liberal-democratici ed essere mezzo e non fine come tu sostenevi un decennio fa. Anche con il tuo aiuto, in una visione che metta insieme tanti innovatori e non tanti conservatori, una cosa che proprio adesso si può fare.

https://www.democratica.com/focus/sinistra-pd-veltroni-dibattito/

“Politica e sindacati, quando in gioco c’è l’Italia” (“Democratica”, 14 agosto 2018)

La notizia del dissenso di Confindustria verso l’esecutivo, costituisce un fronte su cui insistere

In epoca di “blockchain” e di dati che certificano il crescente regresso del Paese (fonte ISTAT), occorre stabilire una via maestra che oltrepassi le storiche contrapposizioni sociali. Verso un patto solidale e lungimirante che porti alla nascita di una nuova fase meno ideologizzata e politicizzata, puntando alla rappresentanza della nazione nelle sue diversità.
L’avventurismo di governo che copre, esaltandole, le reali intenzioni di chi segue logiche sovranazionali da nuovo ordine mondiale in atto, non permette ulteriori perdite di tempo. Distinguendo, però, i ruoli che riguardano politica e sindacato, due ambiti differenti che possono incontrarsi su un obiettivo comune chiamato Italia nella sua dimensione europea. A condizione che si recuperi una responsabilità diffusa (e credibile) senza strane commistioni consociative.
La notizia del dissenso di Confindustria verso l’esecutivo, costituisce un fronte su cui insistere.
Rivedendo gli antagonismi storici davanti ad una situazione emergenziale anche nelle argomentazioni di un Governo che basa ogni male sui complotti speculativi. Per lanciare un nuovo confronto che metta da parte le ortodossie interessate, perché se a chiamare è il bisogno nazionale l’unica risposta può essere la maturità di un atteggiamento. Che innovi approcci e contenuti ormai datati, alla ricerca di una visione accomunante che semplifichi e riorganizzi, tra l’altro, la miriade di sigle spesso utili al solo carrierismo di chi ne fa parte.
Ogni evoluzione, del resto, passa anche per qualche rinuncia. E l’impalpabilità di un sindacalismo culturalmente sempre più spento pur con qualche eccezione (penso a Marco Bentivogli più che alla confederazione che rappresenta), raccomanda il dovere di rileggere il ruolo che si svolge. Senza rinnegare la ragione del proprio essere ma declinandolo in maniera differente. Per un’unitarietà non solo formale ma che sia tale anche nel quotidiano, avviando un insieme sindacale che porti all’univocità di una missione oltre l’eccessiva frammentazione esistente. Perchè l’unico elemento di verità da assimilare è proprio il salvataggio del Paese da un rischio molto prossimo di implosione.
Quella che gli odierni maggiorenti attribuirebbero all’orco cattivo Europa, a qualche generica speculazione e, in generale, ai consueti “poteri forti” (tra cui le agenzie di rating) che sono il paravento alle proprie incapacità. Illudendo – media al seguito – l’eccessiva semplicità di troppi, i primi che poi pagherebbero.

https://www.democratica.com/focus/politica-sindacati-governo-italia/

ENCEFALOGRAMMI PIATTI (“Cartoline Democratiche”, 7 agosto 2018)

C’è un popolo che si indigna a diversa modulazione di frequenza. Piangendo il rogo dell’A14 (giustamente) ma ignorando gli ennesimi fratelli che muoiono per due euro l’ora. Una sorta di “giustizia divina”, secondo alcuni. Che sottrae gli sfortunati da quella “pacchia” pronunciata da Salvini e sostenuta dai silenzi del Ministro del Lavoro suo gemello siamese.
Il Governo, tuttavia, interverrà sul caporalato attivo. La solita comparsata per mostrare le palle che non si hanno né si avranno, al cospetto di una legge apposita che già esiste e che qualcuno dovrà continuare a far funzionare.
L’Italia sotto il sole d’agosto si distrae di fronte a tutto quello che non è cronaca morbosa. Quella che ad ogni incidente assiepa gente curiosa di vedere come si diventa dopo uno schianto. Una roba alternativa da raccontare a parenti, amici e deficienze varie, in un “io c’ero” che ricorda tanto il Verdone di “Un sacco bello”. Ma quella era un’altra Italia. Dove le spacconate avevano un sapore bonario nel nascondere il carattere accogliente degli italiani, secondo uno stile nel contempo timido e guascone. Mentre ora, senza tema di smentita o quasi, la nuova civiltà in atto (con tanto di nuova specie al seguito) minimizza e sbandiera gli orrori umani dello sfruttamento e dell’indignità. Come fossero circostanze normali per chi è nato sotto il segno della sfiga.
I fatti e come vengono vissuti sono un inequivocabile segno dei tempi. Barbari oltre ogni misura, frutto di un progetto che nasce da lontano ma che si deposita anche nei nostri perimetri esistenziali. Lasciando una scia di ignoranza bavosa che tende a riprodursi in ogni dove, con l’ausilio mediatico di personaggi che pompano sapientemente encefali sempre più piatti. Pronti a giustificare per giustificarsi e a voltarsi altrove per non vedere quello che invece potrebbe capitare a loro stessi.
In tutto ciò, però, non vuol esserci il moralismo peloso di chi al massimo si avvita in qualche manifestazione. Quando alle passerelle servirebbe un’autentica rivoluzione culturale per avviare un modello altro di civilizzazione. La più difficile perché implica i requisiti dell’anima e della riflessione. Sottraendosi al giogo di una politica che non può fermarsi al consenso e preferendo la strada impervia del confronto anche su come eravamo, come siamo e come saremo. Una scommessa che necessita di coraggio, una merce rara ma che ad alcuni ancora appartiene. L’importante è non fargli la solita guerra, perché alla fine gli sconfitti saranno proprio gli stessi che la fanno. I deboli che si sentono forti dietro a qualche messaggio categorico con gli attributi sempre in vista. E che, come quelli che vantano sempre le proprie performance amorose, si risolvono in un semplice sussulto onanista. Uno “sport” diffuso per cui (visto il periodo) non c’è vaccino che tenga. Del resto adesso siamo solo italiani …

 

Il razzismo che striscia senza dichiararsi (“Democratica”, 30 luglio 2018)

La china è di quelle imprevedibili che fomenta ogni devianza in attesa di ulteriori derive

Per Salvini il razzismo è un’invenzione della sinistra. Convinzione abbracciata – nei fatti e nei silenzi – anche da quel grillismo inquinante che mina le basi della democrazia.
Da quindici anni lavoro in una grande azienda agroalimentare che vive grazie ai suoi tanti lavoratori stranieri. Gli unici, nonostante la regolarità dell’impresa sia in termini di sicurezza che contrattuali, che per decenni si sono resi disponibili ad un certo tipo di mestieri. In cui è richiesta una semplice disponibilità al lavoro con la possibilità di una crescita riconosciuta a prescindere dalla provenienza.
La civiltà, si sa, passa da una visione laica dell’altro. Nel rispetto costituzionale e morale delle differenze pur in una situazione da caccia all’untore. Con il rifiuto della diversità quale sfogo delle proprie, personali frustrazioni, tipiche di una società indebolita dal bombardamento culturale di questi anni. Dove con disinvoltura si legittimano i casi di “tiro al bersaglio” come effetto di un malanimo popolare e non dell’imbarbarimento creato ad arte per distrarre ed aggregare in massa. Esercitato su un popolo concentrato sul vittimismo di stato e su una superiorità, ormai, praticamente di razza.
La china, dunque, è di quelle imprevedibili che fomenta ogni devianza in attesa di ulteriori derive. Priva di indignazioni ma con il compiacimento per una giustizia finalmente giusta perché risponde alle esagitazioni da semplicità quotidiana. Elaborate sulla qualità culturale della propria esistenza senza risposte effettive che vengano da chi si è sempre manifestato come tutore dei diritti.
Nel mio personale vissuto c’è, però, un dato essenziale che unisce le differenze. Quello di un lavoro che è il comune denominatore tra soggetti fisiologicamente diversi per esperienze, origini ma non per aspettative. Ma quando viene mistificato da provvedimenti che nel segno della “dignità” precarizzano concettualmente, viene meno lo strumento su cui costruire, insieme ad altro, le aperture necessarie a dirci dimensione civile nelle relazioni e nell’attenzione da riporre sull’individuo. Infilandoci nell’istinto tuttugualista che “legalizza” le reazioni più scomposte di un popolo che se un tempo doveva andare avanti, ora si rallegra della sua costante regressione.
Dal 4 dicembre 2016 è così, il resto è solo una conseguenza. Con l’immarcescibile razzismo che striscia senza dichiararsi, com’è nelle corde di una fase pericolosa come chi la sostiene. Non solo Salvini.

https://www.democratica.com/focus/razzismo-striscia-senza-dichiararsi/

IL DECLINO COMPIACIUTO

C’è un che di divertente nelle peripezie della sinistra colta e sepolta. Pronta a rianimarsi con una rentrée nella segreteria Dem che se da un lato assomiglia, per alcuni, alla più classica delle mediazioni concordate, dall’altro mette insieme diavoli ed acqua santa. Secondo le timidezze di questa fase dove oltre a non avere un Presidente del Consiglio, si rischia di non avere nemmeno un partito in grado di opporsi.
Assodato che Boccia, dopo Emiliano, Ilva e Tap, è un esperto di impresa e che Cuperlo è un autorevole rappresentante di riforme, riformismo ed alleanze ma monocorde, stride non già il coinvolgimento della minoranza sempre meno tale nel governo del Nazareno. Cosa evidentemente giusta in rappresentanza di tutte le voci che assiepano l’universo mondo Democratico, ma leggermente perfettibile sulle competenze assegnate. Quasi una provocazione irridente rispetto agli ultimi quattro anni e agli ultimi due governi di cui l’eterno reggente è stato parte attiva. Fino ad essere protagonista di un ticket congressuale e successivi (30/04/2017 – 4/03/2018, periodo di intelligenza col nemico renziano) dal profilo chiaro per visione e finalità.
L’impressione è quella di rimestare nel torbido di un assieme transitorio sulla carta. Con la tendenza a proseguirsi dopo il prossimo congresso in cui capiremo meglio di che morte dovremo morire o, nella migliore delle ipotesi, su quale sopravvivenza potremo vivacchiare.
Nel mentre, le forze governative puntano all’implosione ivi inclusa la stampella del Partito Democratico. Come si evince dalle stesse parole del “Cavaliere” che, per alimentare la spaccatura in atto, inserisce stellati e piddini nel medesimo calderone del “veterocomunismo”. Cavallo di battaglia di nuovo utile per concretizzare un bipolarismo tutto interno tra i vincitori delle elezioni. Minimizzando il ruolo del Nazareno (che tuttavia ci riesce benissimo da solo) e stringendo all’angolo la zavorra stellata. Verso una consacrazione elettorale che sancisca il trionfo del traino leghista.
Ai gentili lettori si ricorda, però, che Lega e M5S sono la stessa cosa a volerlo vedere. Una qualsivoglia digressione da questo assunto e fatti alla mano presenti e passati, sarebbe come mentire sapendo di farlo. Riscoprendo l’antico gusto compagno di un doppiopesismo che per quanto lo si ammanti di altezze incommensurabili, alla fine sempre ipocrisia resta.

Precarietà di Stato (“Democratica”, 5/07/2018)

Il governo per decreto agevola sommerso, incertezze, smantellamenti e, di fatto, le famigerate esternalizzazioni di moda tra i piazzaioli. Con l’assenza di misure su costo del lavoro, stabilizzazioni e investimenti

Il lavoro torna alla precarietà di Stato. Per un governo che per decreto agevola sommerso, incertezze, smantellamenti e, di fatto, le famigerate esternalizzazioni di moda tra i piazzaioli. Con l’assenza di misure su costo del lavoro, stabilizzazioni e investimenti.
Mentre il Jobs Act continua ad esistere, le considerazioni sono anche – e soprattutto – di natura politica. Sulla valenza che il “dignitoso” decreto può ed intende assumere, ammiccando al mirabolante mondo di una sinistra che fa da stampella ad un pezzo della destra in auge. Quel M5S sempre più convinto di poter rappresentare l’anima “rossa” della politica italiana, con misure di impatto sociale finora ferme alle promesse elettorali. Utili, però, a scrivere un romanzo con pochi protagonisti e tante comparse che servono a sdoganarsi con legittimazione, finendo di uccidere la controparte che finge di opporsi.
In attesa che parti sociali, sinistre varie e retorici un tanto a parola emanino un fiato sulle scelte assunte (nel frattempo Corso d’Italia sopravanza tutti col suo piglio ispiratore), l’Istat consegna i nuovi numeri sull’occupazione. Che raccontano una situazione in progressivo miglioramento e superiore ai dati di crescita del 2008. Pur nella percezione di un mese sempre più corto e di una sopravvivenza da agguantare con le unghie e con i denti.
Il governo del “4 dicembre” trionfa, pertanto, su tutta la linea. Aspettando un sussulto – anch’esso “di dignità” – dell’unico baluardo alla deriva in atto. Che magari capiremo meglio il prossimo 7 luglio in occasione dell’ennesima adunata da cui usciremo più confusi di prima. Com’è nelle corde di una forza un tempo riformista che ora subisce l’agenda delle alleanze possibili, intuendo che vivacchiare è meglio che vivere. Con un “nemico” solo virtuale a cui contrapporre la sostanza di un appoggio per non uscire dal giro che conta. Lo stesso chiamato a gestire una nazione che fugge da ogni ripresa, mortificata dall’impronta di un opinionismo che si sostituisce al dovere di esporre una cronaca. Un mestiere sempre più complicato dalle ingerenze di una politica da ingraziarsi orientandola (ma qua e là c’è ancora qualche eccezione), quasi fosse un “colpo di stato” dove per primo si occupano le redazioni. Un modo altro per tenere in ostaggio il Paese, con un linguaggio ed un pensiero che prima o poi ci seppelliranno. Ma con buona pace di chi potrà manifestare su un “profumo di sinistra” sempre più simile agli effluvi di una decomposizione.

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“SE IL PD E’ COMPLICE, IL PRIMO A RINGRAZIARE SARA’ SALVINI” (Cartoline Democratiche, 2/07/2018)

Il Salvini – pensiero si produce in tutta la sua tracotanza. Nel santuario leghista di Pontida infiammato da frasi ad affetto e da una facile euforia.
Il vicepremier e Ministro degli Interni conferma che governeranno per i prossimi trent’anni. Contro Europa, migranti, unioni civili e su sicurezza, pene e vaccini. Marcando, su quest’ultimo aspetto, le differenze con i gemelli stellati, in un gioco delle parti dal sapore politico e di prospettiva non troppo lontana.
Sulla durata trentennale della missione leghista, appare evidente la possibile – ma non auspicabile – fondatezza della previsione. Almeno se il PD, unico baluardo in mancanza di meglio, continuerà a dimenticarsi di essere opposizione. Infilandosi nel vortice polemico di ogni fase più o meno congressuale, con le lacerazioni che nulla aggiungono al clima di questa fase. Scandito dai tanti “ricollocandi” che ammiccano a controparti a questo punto solo teoriche.
Ed in effetti la cifra dell’opposizione Dem si esaurisce in un attacco, per quanto legittimo, alla sola Lega. Con toni ben più lievi rivolti al grillismo di lotta e di governo. L’altra faccia di un esecutivo tra identici dove prevale la morbidezza dei toni nei confronti di Di Maio e soci, sponda ideale (idem per la Cgil) con cui imbastire una relazione consociativa dagli esiti incerti. Cercando, senza passare dal voto, di sostituirsi alla zavorra leghista, dando proprio alla Lega l’occasione di sfilarsi e di provocare – qui sì – quelle elezioni che consacrerebbero Salvini e l’intera coalizione di centrodestra.
Serve, pertanto, una ridefinizione dei ruoli nel rispetto del 4 marzo. Dove chi ha vinto governi davvero e chi si oppone contrapponga una visione sui fatti e non sulle alchimie politiche. Immaginando che l’ipotesi di uno strano apparentamento tra grillismo e Nazareno provocherebbe la fine definitiva del PD. Non già come soggetto politico in carne ed ossa ma come visione viceversa da recuperare elevandola. In cui si dica con chiarezza che Lega e M5S sono la stessa cosa, con differenze solo virtuali che emergono dalle scelte odierne e della scorsa legislatura. Senza silenzi complici ma con la consapevolezza che stare all’opposizione è un ruolo fondamentale su cui ricostruire un Paese differente. Ammesso che dalle parti di questo PD lo si voglia davvero, cosa che capiremo un po’ meglio all’assemblea del 7 luglio. Forse.

Addio agli anni del riformismo, siamo allo statismo da “happy hour” (“DEMOCRATICA” 19 giugno 2018)

Il Pd è l’unico partito che possa assumersi la responsabilità di un Paese dal volto altro. Purché lo voglia

Per una volta non parlerò solo del Pd. Pur nella necessità di un’opposizione che sia anzitutto culturale ed all’altezza del mandato, senza stare a rimorchio dell’agenda gialloverde che nasconde i suoi veri intendimenti.
I fatti di questi giorni ci raccontano di un Paese che rilancia il provincialismo connaturato. Consacrando lo statismo da “happy hour” sui presunti mali del nostro tempo, invogliati da uno scenario internazionale a cui l’Italia si attiene fedelmente. Anche nella guerra mediatica ad ogni diversità.
Gli anni del riformismo sembrano isolati e dimenticati. Un ricordo che andrebbe ripreso anziché affossato da approcci timidi e di maniera, quasi un mezzo per timbrare il cartellino di una partecipazione più che di un’esistenza vera e propria.
Negli Usa, intanto, Trump fa Putin e con i suoi messaggi anti Ue, separa i figli dai genitori immigrati irregolarmente. Un atto in controtendenza rispetto a tutte le precedenti amministrazioni, contro Onu e parti importanti del Partito Repubblicano. Che conferma l’ascesa di un nuovo e preparatorio ordine mondiale che mette insieme le inciviltà di una politica volutamente senza morale, imbarbarendo il sentire comune.
Se davvero l’obiettivo è quello di colpire l’Europa, le rappresentanze poco sociali autorizzano a preoccupazioni che vanno oltre la fisiologica schermaglia in stile social. Per il progressivo impoverimento di una coscienza che dovrebbe superare le devianze culturali di un altro tempo. A cui è essenziale contrapporre una ferma alternativa che usi il simbolo della “piazza” per ricomporre il fronte delle sensibilità ma senza autopropagandarsi. Non già, in sostanza, il gruppone del tutti contro uno col profilo di un famoso 4 dicembre, ma un modo per resettarsi dai vecchi vizi recuperando un’umanità diffusa che esista a prescindere dalle urgenze elettorali.
È necessario, però, muoversi in fretta ed oltre i perimetri e le emozioni convenzionali. Mettendo da parte le convenienze di segreterie e maggiorenti verso una civiltà che recuperi se stessa. E se questo dovesse essere, la naturale conseguenza sarebbe quella di un riformismo ampio e sovranazionale, per rispondere al degrado di un’epoca che appartiene a tutti Pd incluso. L’unico, nonostante tutto e nel bisogno spasmodico di un leader vero, che possa assumersi la responsabilità di un Paese (e, ora più che mai, di un pezzo d’Europa) dal volto altro. Purché lo voglia, finalmente, sino in fondo e senza falsi attendismi.

https://www.democratica.com/focus/governo-salvini-dimaio-pd-riformismo/

“C’E’ SOLO UN MODO PER USCIRNE” (Cartolina scritta insieme ad Ivana Properzi)

In un clima da sconfitti che restano culturalmente tali pur cercando sponde per rialzarsi come non si sa, può essere utile qualche considerazione sulla natura degli scenari in essere.
Da tempo il sistema politico e sociale conosciuto per decenni era in fase di esaurimento. Rispetto al quale Matteo Renzi vide giusto, lanciando quasi dieci anni fa il progetto della “rottamazione” non solo rivolto alle figure che esaltavano un sistema. Ma sfidando il sistema stesso, quello consociativo, attraverso un cambiamento che agisse nel solco istituzionale e democratico.
Le rappresentanze politiche, sociali e di vario genere che intendevano difendere quel sistema in corso di liquidazione, decisero di coalizzarsi. Producendo una battaglia senza esclusione di colpi contro lo stesso Renzi e l’affermazione di un assetto più liberal e più laico. Guardando ad intese con i populisti per non fallire, arenando il nuovo corso del PD e del suo leader e spalancando le porte ai “nuovi barbari” che comunque, nell’immaginario collettivo, rappresentano un cambio di sistema. Fuori dal perimetro istituzionale e democratico dove invece il PD e Renzi cercavano di muoversi.
I sistemi politico – sociali, si sa, hanno una loro ciclicità. Nascono, crescono, decrescono e finiscono. Coloro che sanno leggerlo in tempo ed avviare, di conseguenza, una nuova fase, alla fine si affermano. Chi, viceversa, difende il vecchio sistema, può rallentare un cambiamento che comunque è inevitabile, come è accaduto nello stesso PD. I cui conservatori si sono resi complici dei predetti “nuovi barbari”, evidenziando chi è che dovrebbe scusarsi davvero.
Di fronte a questo ora è necessario un salto ulteriormente in avanti e più grande. Accelerando il processo riformista dai tempi molto stretti, senza favorire altre vittorie della deriva populista. Sostenuta dai media in costante riposizionamento e dall’intelligenza col nemico, anche se è evidente che chi rappresenta la voglia di cambiare vince. C’è da capire chi e per che cosa, perchè la differenza sta tutta qui con o senza il PD. Che rischia di rappresentare una stampella di pura sopravvivenza, con effetti già noti che rischiano di peggiorare.
Nel frattempo il governo è partito, nei modi che conosciamo e con gli effetti destabilizzanti che si iniziano a vedere. Un intreccio evidenziato anche dalle ultime vicende romane con ciò che potrebbe esserci dietro.
La speranza è che l’opposizione non si renda complice, cercando nella politica l’alibi per giustificare soluzioni che alla fine riproporrebbero proprio il sistema da superare.
Intanto, però, osserviamo Matteo Renzi. Fin qui ancora l’unico che possa dare una svolta per superare le stagnazioni vecchie e nuove.